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Perché le criptovalute crollano sempre a gennaio

La tempesta che ha investito il mercato delle criptovalute a partire dal 7 gennaio – colpendo pesantemente anche i bitcoin – sembra essere passata. Per tornare ai livelli precedenti, però, ci vorrà parecchio tempo: in soli dieci giorni la capitalizzazione complessiva delle monete digitali (stando ai dati di CoinMarketCap) è crollata del 49%, passando da 830 miliardi di dollari al minimo di 425 registrato mercoledì 17 gennaio. Ma quali sono state le ragioni del crollo di un mercato che solo a partire dalla serata di ieri ha dato i primi convincenti segnali di ripresa?

Si è parlato molto delle minacce da parte della Corea del Sud di chiudere tutti gli exchange locali – le piattaforme che permettono di scambiare le criptovalute – e delle pressioni sempre più importanti che giungono dalla Cina. Essendo l’Asia un mercato fondamentale, è normale che l’attenzione dei governi e dei legislatori impatti sulle quotazioni. Allo stesso tempo, però, c’è qualcosa che non torna: la Cina già da mesi ha vietato agli exchange di operare sul territorio e ha bandito definitivamente le ICO (initial coin offering, l’equivalente delle quotazioni in borsa per le startup che operano sulla blockchain), senza causare scossoni neanche lontanamente paragonabili a quello appena registrato. Per quanto riguarda la Corea del Sud, invece, nessuna decisione è stata ancora presa (ma potrebbe arrivare nelle prossime ore, con possibili ricadute su un mercato che ha appena ripreso a salire).

Per capire le ragioni di un calo che ha portato moltissimi economisti a predire per l’ennesima volta lo scoppio della bolla, bisogna però guardare quanto avvenuto negli anni scorsi. Perché il mondo delle criptovalute ha una particolarità tutta sua: ogni mese di gennaio, nella seconda settimana, fa registrare i peggiori crolli dell’anno.

È successo nel 2015, quando la capitalizzazione passò dai 5 miliardi del 7 gennaio ai 3,1 miliardi del 14 (-38%), ed è avvenuto anche nel 2016, quando il picco di 7,5 miliardi di dollari si registrò il 7 gennaio e il punto più basso il 16 gennaio, atterrando a 6 miliardi (-20%). E l’anno passato? Il picco giunse il 5 gennaio (21,8 miliardi), la fine del crollo il 12 gennaio (14,4; -34%).

Lo schema, quindi, si ripete uguale da quattro anni a questa parte: attorno al 5/7 gennaio la capitalizzazione tocca il suo massimo, per poi iniziare a scendere bruscamente, seminando il panico e arrestandosi solo attorno al 12/16, dopo aver bruciato decine di punti percentuali di valore. Dopodiché inizia una risalita prima timida, poi sempre più convincente e che si rafforza attorno alla primavera. Ma com’è possibile che un mercato che è per definizione imprevedibile segua degli andamenti così regolari?

A quanto pare, almeno per quanto riguarda il crollo di gennaio, bisogna prendersela con il capodanno cinese, che solitamente cade a febbraio. Secondo una teoria molto diffusa in rete, i cinesi – in vista di un periodo di vacanze e viaggi – vendono i loro bitcoin (e le altre monete digitali) facendo scendere il prezzo. Una teoria che trova anche una sua ridotta versione occidentale, visto che attorno al 23 dicembre, in pieno periodo pre-natalizio, si era già registrata una netta discesa dei bitcoin, la cui risalita è stata poi stroncata dal martedì nero del 16 gennaio.

Nonostante la Cina, nel mondo delle criptovalute, sia la nazione più importante – si stima che circa il 40/50% dei bitcoin sia in mani cinesi, ma altri calcoli portano cifre molto più elevate – è difficile immaginare che un crollo di questo tipo possa essere causato solo dai lavoratori di Pechino che tornano dalle loro famiglie per le vacanze. O meglio, era possibile che avvenisse quando il mercato valeva 5 o 7 miliardi e il calo era nell’ordine del 20/30%. Che oggi il Capodanno cinese possa mettere in grave difficoltà un mercato da oltre 800 miliardi, affossandolo del 50%, riesce davvero difficile da immaginare.

Più probabile che ci si trovi in presenza di una profezia che si autoavvera. Sapendo quando solitamente avviene il crollo, gli investitori iniziano a vendere appena quel periodo dell’anno si avvicina, affossando il mercato e poi facendo man bassa di criptovalute a prezzi di saldo, dando il via alla ripresa. Chi invece ci rimette sul serio sono gli investitori meno esperti, quelli che comprano quando la capitalizzazione raggiunge livelli altissimi (e i media raccontano di monete che crescono del 500% da un giorno all’altro) per poi farsi prendere dal panico nel momento in cui le cose non vanno come promesso, vendendo in grave perdita.

Il fatto che, ormai, nel mondo delle criptovalute abbiano fatto il loro ingresso attori davvero importanti e tutt’altro che sprovveduti (grossi fondi d’investimento specializzati o venture capitalist come Peter Thiel) rende più probabile immaginare che quella a cui assistiamo a gennaio sia una vera e propria manipolazione del mercato da parte degli speculatori. Che vendono al massimo per comprare quando il prezzo scende al minimo; una tipica strategia, che in questo caso è portata all’esasperazione, che colpisce chi investe sull’onda del sentito dire senza essersi prima informato sui rischi di un mercato dalla volatilità elevatissima.

E adesso che cosa possiamo aspettarci? Difficile che si ripeta un nuovo 2017, quando il valore complessivo, nel corso dell’anno, aumentò di 40 volte; si può però immaginare che gennaio sarà ancora un mese di turbolenze (ma molto più leggere di quella appena passata) e che si assisterà a un consolidamento graduale che crescerà soprattutto tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate. Con alcune avvertenze: prima di tutto, le performance del passato non danno alcuna garanzia sugli andamenti futuri; inoltre, la decisione attesa a ore da parte della Corea del Sud (indecisa se chiudere tutti gli exchange locali o solo quelli che violano la legge, due cose molto diverse) potrebbe riportare il cattivo tempo sul mercato. E infine: gli schemi ricorrenti si ripetono più e più volte; finché, a un certo punto, non si ripetono più. Meglio non darli per scontati.

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