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L’arte di riconoscere un’Elena Ferrante. Intervista a John Freeman

John Freeman in Brasile.

Esce in Italia in questi giorni Freeman’s: Scrittori dal Futuro, l’edizione italiana di una delle riviste letterarie più interessanti e discusse al mondo, curata e tradotta da Black Coffee edizioni (qui maggiori info sull’opera). Il suo editor, il critico e autore John Freeman, è una delle figure più influenti dell’editoria globale: ex direttore dell’influente rivista Granta, cura anche LitHub, il principale e più seguito sito letterario del momento, e ha scritto diversi acclamati bestseller (in italiano si trovano Come leggere uno scrittore e La tirannia dell’email, entrambi pubblicati da Codice). Freeman in questi giorni è nel Belpaese per un tour che tocca Milano, Torino, Firenze e Roma. Per l’occasione, l’abbiamo intervistato chiedendogli del suo rapporto con il nostro Paese, gli autori e le riviste italiane, cos’è oggi un magazine culturale e come fa a riconoscere un grande autore di domani.

 

Fin dal primo numero di Freeman’s ha difeso la sorpresa. Scrive infatti che “molto poco di ciò che è interessante nel mondo accade senza rischio, movimento o meraviglia”. Nel corso della sua carriera, ha scoperto con questo paradigma molte voci da diverse parti del mondo. Quali sono stati i rischi che si è preso più volentieri, e quali le sorprese più forti?

Penso che le riviste letterarie debbano correre dei rischi, perché sono pensate per essere l’avanguardia della letteratura. Devono pubblicare una scrittura che suonerà strana, persino brutta, prima che se ne riconosca la bellezza. Gli editori al contrario non possono correre molti rischi, invece, perché non sono fatti per stare troppo al passo con i tempi. Ecco perché gran parte di ciò che viene pubblicato dai grandi editori suona… familiare, o “buono” in un modo che non disturba. Di questi tempi, però, la realtà è familiare o sicura? Dobbiamo farci scuotere un po’ dalla letteratura, per sentire ancora cosa vuol dire essere vivi. È sempre stato così, nelle arti. La voce metallica di Bob Dylan fu derisa quando suonava nei caffè di West 4th Street a New York. Munch venne schernito a Oslo per i suoi dipinti rivoluzionari. La Sacre Du Printemps ha causato una sommossa quando è stata presentata in anteprima a Parigi.

Non sto dicendo che la grande scrittura debba per forza oltraggiare, ma all’inizio sembrerà certo molto strana, difficile da classificare. Strana e leggermente “a disagio”. Guarda per esempio quanto c’è voluto per abituarsi alle cose migliori di Toni Morrison, venticinque anni! Viviamo seguendo le norme, e ciò include la nostra estetica, e molte di quelle norme sono definite in parte da dove viviamo. Detto questo, il mio obiettivo con Freeman è di sganciarmi dalle norme correnti in America, provando a pubblicare la migliore scrittura del mondo, non importa da dove essa provenga. Per questo, per ogni numero mi sono rivolto prima di tutto agli scrittori, per capire cosa avevano bisogno di fare, per fare ciò che volevano. Il nuovo numero è stato pieno di sorprese per me: ho parlato con centinaia di critici, editori e scrittori in tutto il mondo, per identificare dei nomi che fossero in prima linea nella nuova scrittura. Alcuni di loro scrivono in inglese, molti altri no. Aspettare pezzi di Sayaka Murata, Andres Felipe Solano, A Yi ed altri è stato poi un vero esercizio, nell’idea che lo stile offra sempre più che un mero concetto astratto. Sapevo che cosa stava succedendo nei racconti, i traduttori me li descrivevano, ma l’esperienza di leggerli è stata migliore e più completa.

 

Ha sostenuto però anche il valore etico-politico della lettura (ti chiedi “è possibile combattere attraverso le nostre scelte di lettura?”), nonché un cosmopolitismo attivo. Qual è, a suo parere, il ruolo delle riviste letterarie e culturali all’interno della “Divided Nation”, l’America delle divisioni e delle diseguaglianze (come recita il sottotitolo di una sua ultima pubblicazione)?

Mi dispiace essere negativo, ma non credo che le riviste letterarie americane stiano facendo un ottimo lavoro nel comprendere meglio il presente. Negli anni ’50 la rivista Evergreen pubblicava Kenzaburo Oe e molti altri nuovi scrittori, la Paris Review stava creando un’intera nuova cultura letteraria, la rivista di Robert Bly The 50s pubblicava Transtromer e altri, in traduzione. Ma ora le riviste letterarie statunitensi, come le riviste di tutto il mondo, sono più nazionalizzate, e per noi, la parola “noi” significa America. Le migliori riviste negli Stati Uniti, se uno è fortunato, avranno le traduzioni di mega-star – come Knausgaard, Murakami, Ferrante – sebbene questo porti a che molti altri scrittori non siano rappresentati.

Penso che una rivista letteraria in America debba affrontare due sfide etiche in questo momento, entrambe legate all’estetica, ovvero 1) cercare di ridefinire il mondo culturale come non americano-centrico, e 2) rivelare l’America per quello che è, ed è sempre stata, sebbene sia molto più evidente oggi. Approcciare queste sfide significa mettersi in contatto con i migliori scrittori del mondo. Alcuni dei nomi di questo nuovo numero di Freeman’s non saranno affatto nuovi per gli italiani, scrittori come Edouard Louis, Diego Enrique Osorno e Samanta Schweblin sono ben pubblicati e tradotti. Ma devono essere conosciuti meglio. La seconda parte di questa sfida – pensare a ciò che l’America è in questo momento – significa affrontare le grandi disuguaglianze e offrire una prospettiva alternativa alle mitologie che sono state vendute in nome dell’eccezionalismo americano. Penso che ci siano molti scrittori forti che stanno facendo questo. Scrittori come Claire Vaye Watkins, Ocean Vuong, Dinaw Mengestu, e altri. Vorrei aggiungere Colson Whitehead, il cui nuovo libro, The Underground Railroad, è un capolavoro. Sarà un classico per anni e anni. Quello che fanno tutti questi scrittori è raccontare una storia che, senza nemmeno intenderlo direttamente, demolisce l’eccezionalismo americano. È una filosofia deformante a livello politico: ma se ci credi, come dovresti leggere altri libri? E in effetti, negli Stati Uniti, la maggior parte delle persone non lo fa.

John Freeman.

L’Italia è storicamente un Paese di riviste, tra fine Ottocento e inizio Novecento a Firenze nascevano le più importanti dell’avanguardia europea, Lacerba, Campo di Marte, Leonardo, con forte contatto con la Francia, che allora era il centro culturale del mondo. Oggi molte riviste indie (penso a Effe, alle riviste online come Crapula, Nazione Indiana, Cadillac, ‘Tina, solo per citarne alcune) servono da palcoscenico per le nuove voci, con un cura grafica e editoriale molto forte. Cosa si aspetta di vedere e di leggere in questo tour italiano?

Penso che l’ibridazione tra culture sia la chiave per la scrittura innovativa e la sua capacità di non essere solo un club per pochi intimi. Pound ha imparato dagli ideogrammi cinesi quanto dal suo collega T.S. Eliot. Munch, di cui ho parlato prima, ha dovuto lasciare Oslo per Berlino, dove vivevano altri scrittori espatriati. Penso che questi epicentri – a volte siti nelle metropoli, ma non sempre, pensando a Woolf nella campagna inglese con Quentin Bell ed altri – servano a creare una sorta di calore, di attrito. Da questa alchimia emergono nuovi modi di pensare, scrivere, vivere e nuove strade da pubblicare, in altri paesi, per rendere l’estetica accessibile a un pubblico più vasto. Parte del motivo per cui mi muovo come editor è per vedere cosa sta succedendo altrove. È spesso difficile da prevedere, anche avendo a disposizione un sacco di traduzioni (almeno nel mondo americano).

Ci sono molti scrittori italiani tradotti in America in questo momento, l’ultimo romanzo di Nicola Lagiola è uscito qualche mese fa, i romanzi di Alessandro Piperno sono stati recentemente pubblicati, Margaret Mazzantini, De Luca, Magris, Mazzucco, Starnone, Baricco e il due noti allievi della Holden, Giordano e Grossi, e ci sono Ammaniti, Saviano, il grande scrittore di gialli Andrea Camilleri, Benni, Maraini, per non parlare di alcune opere più vecchie, come quelle della Ginzburg, della Morante e di Pavese, che sono state ripresentate negli ultimi anni. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Ovviamente il più grande impatto di tutti è stato quello prodotto da Elena Ferrante, che credo abbia fatto sì che ogni singolo scrittore serio che conosco smettesse di fare quello che stavano facendo e riconsiderasse nella sua scrittura l’importanza del personaggio e della narrazione. La Ferrante è stata come una rivoluzione.

Se dovessi presentare il percorso di Freeman’s direi: poetica senza disdegnare l’impegno. L’idea è quella di conciliare queste due dimensioni, estetica e etica assieme. Sbaglio?

I primi significati della parola inglese engagement, risalenti al XVII secolo, includono un obbligo morale, o legale. Penso che nel nostro presente, quella che il critico americano Lionel Trilling ha definito “la responsabilità morale d’essere intelligente” sia minacciata. È più difficile che mai essere intelligenti: i fatti sono attaccati pubblicamente. Le scuole sono scarsamente finanziate. Le biblioteche sono scarsamente finanziate. Ovunque si celebra l’idiozia. La si diffonde. La si presenta come forza. L’impegno come parola ha iniziato a significare il contatto, il mero essere online, in rete, costantemente occupati. E ciò è disastroso. Una volta ci si fidava, in piccola parte, che lo Stato ti avrebbe educato. Questo non accade più. Quindi l’impegno – in senso radicale – è stato abbandonato e sostituito con qualcosa di molto meno edificante.

Perciò come possiamo imparare a conoscere ciò che è vero? Se sei d’accordo con il poeta Keats – sepolto nel vostro Paese, tra l’altro – ovvero che ciò che è bello è anche vero, allora essere uno che si mette alla ricerca della bellezza, è allo stesso tempo essere un ostinato cercatore di verità. Le due cose non sono in conflitto. Anzi, sempre più spesso sono la stessa cosa. Capire questo per me è capire come sopravviveremo e persino come ci risolleveremo. A mio parere, nessuno accende una torcia in quella ricerca meglio dei buoni scrittori che scorgono la bellezza. Invece spesso altri scelgono quello che possiamo vedere, non mostrandoci la totalità di una cosa, e questo è un errore dovuto a internet. Vedere quello che non stavamo ancora vedendo: ecco a cosa serve Freeman’s.

Ha scritto, parlando della bellezza culturale del sorvolare altri spazi, che “il mondo visto dall’alto svela il proprio volto” in forma nuova. La mia sensazione è che a pilotare i nostri aerei siano anche i traduttori, figure fondamentali per un cosmopolitismo attivo. Qual è il ruolo del traduttore in Freeman’s?  

La metterò in questo modo: senza i traduttori Freeman’s non potrebbe esistere. Sono cruciali per far decollare questo progetto. Penso che la traduzione sia una potente metafora di ciò che significa essere vivi oggi. Cosa c’è di più intimo e profondo di mettere una cultura in un’altra bocca? Questo è quello che fai quando impari un’altra lingua. Per i linguisti un po’ timidi, provinciali e impacciati che siamo, i traduttori sono tutto, ci aiutano ad apprezzare l’ampiezza e la bellezza di ciò che è là fuori.

 

Una frase che mi ha colpito molto e che vorrei commentasse, dalla sua introduzione a Scrittori dal futuro, è questa: “Ho scoperto che il realismo non va per la maggiore fra gli autori più di talento.” Come si spiega questa crisi del realismo?

Penso che i maggiori “distributori” di realismo siano il cinema e la televisione, forme di intrattenimento globali. Non sono mai stato in un hotel del mondo dove non stessero facendo vedere un episodio di Law & Order. È rassicurante, in un certo senso. Vediamo qualcosa su uno schermo ed eccolo lì; ma, naturalmente, leggi qualsiasi buon giornalista, Saviano o Joan Didion, e sai che tutto ciò che stiamo vedendo è stato preformattato, specialmente quando si tratta del cosiddetto “reale”. Eppure, quanto è bello scivolare sopra quelle superfici, per vedere le cose come stanno accadendo proprio ora! Il potere della letteratura, tuttavia, non è mai stata la ripresa dall’alto, è sempre stato il primo piano. Come quando ci mostra cosa succede nella testa di persone che vivono appena fuori dalla folla. Fino a che i nostri scrittori cresceranno esposti al cinema e alla televisione, credo che il richiamo al realismo manterrà il suo fascino.

 

Ultima domanda: come concilia il suo lavoro di editor con quello di scrittore?
Si arricchiscono a vicenda ma i ruoli sono molto diversi. Come editor, mi trovo a essere un sostenitore e ascoltatore di uno scrittore. È uno dei grandi piaceri della vita per me, un piacere molto puro, di qualcuno che ama e cerca di spiegare perché uno scrittore particolare è grande e ha bisogno di essere letto. Il ruolo di uno scrittore è più privato: sto ascoltando quello che succede nella mia mente, per quanto strano possa essere, mentre si mette in contatto diretto contro il mondo. Le due attività – scrittura e curatela – non sono in alcun modo in conflitto per me, dal momento che il mio rispetto per la scrittura e gli scrittori è ciò che mi fa venir voglia di scrivere, ed è la mia consapevolezza dei miei limiti come scrittore che rende un sollievo e una gioia riprendere e valorizzare la scrittura di qualcun altro per farla cantare, esprimersi.

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