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Come Apple ha perso il treno dell’intelligenza artificiale, nonostante Siri

Uno dei primi utilizzatori dell’iPhone 4S a Covent Garden, Londra, nel 2011.

Se pensate all’intelligenza artificiale, qual è la prima cosa che vi viene in mente? A meno che non abbiate risposto Terminator 2, è probabile che abbiate pensato a Google o ad Amazon. Non è un caso: la compagnia di Mountain View non è solo la prima ad aver utilizzato con successo il machine learning per i suoi prodotti più comuni (dal motore di ricerca a Gmail), ma è anche all’avanguardia nel campo della ricerca (grazie alla startup DeepMind) e dei programmi open source utilizzati dagli informatici di tutto il mondo (come TensorFlow).

Amazon, invece, fa ormai rima con Alexa: l’assistente virtuale che alimenta i dispositivi Echo e che punta sull’evoluzione dell’intelligenza artificiale per diventare sempre più brava a capire e anticipare le nostre necessità. Ad Amazon e Google si aggiungono colossi come Facebook (il cui dipartimento AI è stato guidato per lungo tempo da un luminare del settore come Yann LeCun) o Microsoft (che da qualche tempo si definisce una “AI first company” e che sta investendo molto sulle potenzialità di Cortana).

Chi manca all’appello? Ovviamente, il grande assente è Apple. L’azienda che ha rivoluzionato il mondo dei computer, della musica e degli smartphone ha – almeno finora – completamente mancato il bersaglio nel settore che più di ogni altro promette di rivoluzionare la società e portarci verso una quarta rivoluzione industriale.

E pensare che dalle parti di Cupertino avevano intuito che direzione avrebbe preso il mondo digitale con parecchio anticipo sui concorrenti, conquistando un vantaggio che sembrava incolmabile. La storia è nota: nel 2010, Apple acquista un’applicazione, già disponibile sull’App Store, che di nome fa Siri. Circa un anno dopo, Apple porta per prima l’intelligenza artificiale nelle tasche di milioni di persone, presentando il suo assistente digitale – Siri, per l’appunto – in occasione del lancio dell’iPhone 4S. Prima di chiunque altro, la società fondata da Steve Jobs aveva individuato una delle sfide fondamentali del futuro prossimo: dotare gli smartphone (e non solo) di assistenti digitali in grado di aiutarci a pianificare la giornata, a inviare e leggere messaggi ed email, a rispondere alle domande che ci vengono in mente.

Come tutti i possessori di iPhone sanno, le cose non sono andate come promesso: ancora oggi – nonostante i recentissimi e significativi progressi – Siri viene utilizzato per compiti banali come puntare la sveglia o annotare (con qualche difficoltà) dei promemoria; nel frattempo, i concorrenti che all’epoca erano rimasti a guardare hanno superato Apple a piena velocità, con i già citati Alexa o Google Assistant. “Siri non è riuscita a dirmi i nomi dei principali candidati alla presidenza e alla vicepresidenza degli Stati Uniti. O quando si sarebbero tenuti i dibattiti”, si lamentava qualche tempo fa Walt Mossberg su The Verge. “Quando le ho chiesto «com’è il tempo a Creta», mi ha fornito il meteo di Crete, un piccolo paese dell’Illinois. Google Now, sugli stessi dispositivi Apple, usando gli stessi input vocali, ha risposto correttamente a ognuna di queste domande”.

Nonostante i progressi di Siri, la distanza con Google e Alexa è ancora imbarazzante. Ma quali sono le ragioni? Uno dei più importanti ostacoli è causato, paradossalmente, da una delle più apprezzate virtù di Apple: il rispetto della privacy degli utenti. “Per funzionare bene, l’intelligenza artificiale ha bisogno di un’enorme quantità di dati”, si legge su Quartz. “Questo, solitamente, richiede qualcosa che Apple non è mai stata disposta a fare: raccogliere i dati dei suoi utenti o collaborare con terzi per usare quelli in loro possesso”. Come ormai sappiamo fin troppo bene, Google, Amazon e Facebook invece non esagerano con gli scrupoli quando si tratta di fare incetta dei preziosissimi big data.

Ma quella della privacy non è l’unica ragione: Apple ha sempre avuto il culto della segretezza, ragion per cui non pubblica le sue ricerche e non permette ai suoi dipendenti di parlare dei progetti in corso. Questo, però, ha fatto sì che molti talenti del machine learning (ingegneri che sono tanto difficili da trovare quanto cari da pagare) fossero ben poco disposti a lavorare nel bunker di Cupertino mentre i loro colleghi conquistavano la fama a suon di ricerche su ArXiv – riprese dalle testate di tutto il mondo – e conferenze globali. E infatti, scorrendo i nomi delle star dell’intelligenza artificiale, non si trova nessuno che lavori alla Apple: Yann LeCun, come detto, si trova a Facebook, Geoffry Hinton a Google, mentre Andrew Ng è passato da Google a Baidu, per poi dedicarsi a un suo progetto personale.

Le cose, però, stanno iniziando a cambiare. Apple, qualche mese fa, è riuscita ad assoldare il professore della Carnegie Mellon Ruslan Salakhutdinov; ma soprattutto ha recentemente soffiato a Google uno dei suoi informatici più importanti: John Giannandrea. Per riuscire nell’impresa ha dovuto rinunciare, almeno in parte, alla nota segretezza: da qualche tempo, Apple pubblica infatti il suo Machine Learning Journal, offrendo così una vetrina ai ricercatori e consentendo loro di partecipare a qualche conferenza.

Troppo poco e troppo tardi? Probabilmente, sì. Anche se va sottolineato come la vera abilità di Apple non sia mai stata quella di arrivare per prima, ma di migliorare prodotti già inventati da altri. Per una volta, però, avrebbe fatto meglio ad approfittare dell’ottima intuizione avuta otto anni fa.

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