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Quelle di Lucio Battisti non sono mai state solo canzonette

Gli davano del fascista, con istruttoria inappuntabile: i boschi di braccia tese de La collina dei ciliegi, il mare nero de La canzone del sole, il fotogramma di una trasmissione Rai del ‘71 in cui estendeva romanamente l’arto, sì, ma per orientare il coro; lo accusavano di finanziare Ordine Nuovo e lui, Lucio Battisti, scomparso esattamente vent’anni fa, se la rideva con gli amici: “Chi, io? ma se faccio fatica a pagare il biglietto del tram”. Però in pubblico taceva, perché l’artista è nell’opera ma l’artista non è l’opera. Bruno Lauzi lo raffigurava come un liberale all’inglese – e a noi battistiani di mercato non dispiacerebbe dargli credito – ma perché appuntare coccarde su uno che con le canzonette ipnotizzava tutto l’arco costituzionale (e pure qualche frangia extra-parlamentare, se è vero che ai tempi del sequestro Moro i suoi album popolavano persino i covi dei brigatisti)?

Impossibile liquidare con l’ortodossia quel talento fragrante ed ecumenico: l’apprendistato da chitarrista nei night al seguito di gruppi dai nomi cazzuti e naif (i Mattatori, i Satiri, i Campioni: ma lui era ancora “Cucciolo”); l’incontro con Mogol e le prime spiazzanti affermazioni da compositore; il debutto da interprete, contro la Ricordi e contro i critici, impreparati a quella voce sempre sull’orlo del precipizio. Ma proprio in quella voce che si spezzava e s’impennava, nei falsetti lunari e negli strappi feroci, c’era già tutto il significato rivoluzionario della sua musica, che di volta in volta s’incarnava in modulazioni pop, soul, blues, rock, prog, folk, funky o disco, ma che sempre si manifestava con almeno dieci anni d’anticipo rispetto ai suoni dei contemporanei.

A ventisette anni saliva al trono che avrebbe lasciato solo per quel letto d’ospedale di fine anni ’90. Eppure, ancor oggi, per parlare del più grande cantautore italiano, si sente il bisogno di muovere dai suoi pretesi debiti nei nostri confronti: non necessariamente dalla bufala del Battisti camerata, certo, ma dall’impressione di una vena impareggiabile in qualche misura sminuita da un’ispirazione orgogliosamente privata, dal rammarico per una qualifica che gli sarebbe toccata di diritto – quella del maître à penser – da lui rigettata con sdegno, persino dall’acrimonia per un esilio vissuto dal pubblico come un tradimento, anziché come la più costosa dimostrazione di fedeltà a se stesso che il fuggitivo potesse fornire. Profili disconnessi e comunque inestricabili, perché Battisti è sempre stato Battisti: semmai sono le nostre aspettative a essere mutate.

In Battisti non c’è spazio che per la musica, servita in purezza e mai in crosta d’ideologia. A farsi capopopolo non pensa neanche per un attimo: è il ’70, partecipa a Speciale per voi con due baffetti da tanguero e uno spettatore lo punge: “Ti consideri un cantante impegnato?”; “macché impegnato”, ribatte, “disimpegnato, disi-tutto”; “ma allora”, incalza un altro, “cosa credi di dire nelle tue canzoni?”; e Lucio: “Io? Ma che devo di’? State a parla’ sempre voi…”, e subito riprende a cantare. Altrettanto naturale il ritiro dalle scene: tra il ’68 e il ’70, partecipa a un Cantagiro (con Balla Linda; titolo di lavorazione: Testicolo pulito), un Sanremo (Un’avventura), due Festivalbar (Acqua azzurra, acqua chiara e Fiori rosa, fiori di pesco), entrambi vinti, e porta a termine le sue due sole tournée, una ventina di date in tutto. Ma appena giunto a destinazione chiude con le serate, riduce drasticamente le interviste, concede gli ultimi storici passaggi in tv e poi abbandona anche il piccolo schermo (“la televisione? meglio l’olio di ricino”).

Dicono che non sia in grado di tenere il palco e per smentirli basterebbero le due apparizioni a Teatro 10: i duetti con Mina e con sé stesso – l’immagine suddivisa tra i pensieri al naturale e le parole solarizzate – e la prodigiosa Eppur mi son scordato di te costruita su una chitarra da due lire, rimediata a Termini appena prima della trasmissione. Dicono che non tolleri le inesattezze delle esecuzioni dal vivo, quasi fosse un difetto, per uno che concepisce la musica (anche quella leggera) come arte più che come intrattenimento; uno per cui il canto è la prosecuzione della scrittura con altri mezzi; uno che in sala d’incisione farebbe anche le pulizie, se servisse a slanciare il sound un centimetro oltre la perfezione.

Battisti persegue con coerenza la demolizione del proprio personaggio: le sue mise ruspanti (la criniera, i cardigan di lanaccia, i foularini da villico nobilitato) e le pose scorbutiche (a chi gli chiedeva un autografo, rispondeva sprezzante: “i santini sono finiti”) non occhieggiano al pubblico; il silenzio gli aliena i giornalisti, che in cambio gli setacciano l’esistenza (a nulla serve il concerto riparatore offerto nel ‘71 al Circolo della stampa di Milano); di eventuali coperture politiche non sa che fare (all’inizio degli anni ’80 Caterina Caselli lo ospita con Craxi, che comincia a sproloquiare su Nenni e Mussolini e Garibaldi; Lucio si rivolge a Grazia, dall’altro lato della sala, e lo fredda: “Aò, è mejo de Dallas”). “Non sono né un presuntuoso né un orso”, si giustifica, “soltanto un individuo che non vuole lasciarsi consumare”.

Altrettanto spigolosi sono i suoi rapporti con l’industria musicale: da un lato c’è in lui un anelito autarchico che spiega il diradamento delle collaborazioni dei primi anni (Équipe 84, Dik Dik, Formula 3, Pfm), la decisione stessa di cantare le proprie composizioni e poi quella di diventare impresario di sé stesso con la Numero Uno, l’evoluzione verso l’elettronica pura e l’utopia di una musica senza musicisti; dall’altro, la consapevolezza della propria statura gli preclude ogni approccio diplomatico: con Christine Leroux, che lo aveva avviato alla carriera di autore, rompe così: “Io sono un genio: se non mi scoprivi tu, mi scopriva un altro”; stronca De Andrè (“testi goliardici che piacciono ai ragazzini, mentre la musica è solo accompagnamento”), Baglioni (“l’erede della tradizione di Claudio Villa”), Gaber (“io sono un rullo compressore, lui un triciclo”); seduto in prima fila a un concerto di Santana, passa tutta la serata a insolentirlo; e la volta che intravede Zucchero in tv dimenarsi al microfono, zuppo e grondante, fulmina l’apparecchio: “Aò, se volevo suda’ facevo er minatore”.

A chi parla, allora, l’individuo Battisti, se non alle folle, non ai media, non alla società italiana, né ai colleghi? Si rivolge a un altro individuo, il singolo fruitore dei suoi dischi, in una comunicazione personale quasi quanto il discorso che lega i personaggi delle sue canzoni: per “farlo sentire, assieme all’artista, l’autore, l’esecutore stesso di ciò che una volta doveva soltanto ascoltare, subire”; per permettere “a ognuno di ascoltare secondo la propria sensibilità, predisposizione o volontà”, cioè di “partecipare alla musica” – come “fatto sociale”, certo, ma non necessariamente collettivo.

Amore e non amore aveva preparato il terreno: quattro canzoni – con la straziante ironia di Una (“io ti apro il mio cuore / tu fai finta di ascoltare / ed intanto guardi in giro / vuoi qualcosa da mangiare”) e l’amplesso ineluttabile di Dio mio no: gli zeloti della Rai censurano persino il non detto – intervallate da quattro brani strumentali la cui unica indicazione d’uso consiste nei titoli wertmülleriani delle tracce. Ma centrale, in questo senso, è Anima latina, il più panelliano dei lavori con Mogol: la musica deborda in ogni direzione e i testi si mimetizzano tra le linee melodiche; al missaggio, Battisti riduce il livello della voce per propiziare la complicità dell’ascoltatore. E l’ascoltatore risponde: l’album rimane in classifica per sessantacinque settimane.

C’è un che di religioso in quest’approccio alla musica. Secondo la tradizione, a Poggio Bustone – il paese natale di Battisti – avrebbe fatto sosta San Francesco e il cantautore raccontava di aver tratto da quest’influenza una precoce (e fortunatamente effimera) vocazione monastica. Eppure un’analoga spinta mistica sembra attraversare la sua produzione: un senso di urgenza difficilmente conciliabile con lo statuto metafisico della musica leggera. La diffusione del verbo sonoro, tuttavia, era affidata a schemi protestanti, con il rifiuto di ogni intermediazione – esclusa, beninteso, quella del profeta – e la responsabilizzazione del destinatario. Battisti fa solo musica, ma la fa come se fosse l’unica cosa capace di dare un senso al reale.

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Non c’è, evidentemente, religione senza dogmi: e qual è il dogma del culto battistiano? Anche in questo caso, il primissimo Battisti dice già tutto: La mia canzone per Maria, brano del ’69 meno noto di altri, racchiude in due versi il manifesto di una missione trentennale: “Quanti volti, quanti volti ha l’amore / per tutti una canzone sentirò”. Secondo una catalogazione superficiale, dei 160 brani che il reatino incise in italiano, 128 hanno tema amoroso; vi ricorrono 138 figure femminili, che l’io cantante apostrofa direttamente in 99 casi. Non è un caso che in E già – l’unico disco brutto di Battisti: ma è una bruttezza spettacolare – l’amore quasi non compaia, nonostante i testi (forse autografi) siano accreditati a Grazia Letizia; questa lettura permette di ricondurre la collaborazione con Panella al tronco unitario dell’opus battistiano, come gli ascoltatori meno approssimativi raccomandano da tempo.

Anche quando i campi di grano e i surgelati rincarati lasciano il posto a immagini più ardite (“bardiamo un animale a caso, il cuore / dai fianchi pretenziosi da roano. / Ecco che trotta. Che ci prende la mano”), Battisti – la cui musica viene prima delle parole con Mogol e dopo le parole con Panella, ma sempre le informa e le traina – continua a spiegarci l’amore, con alterna efficacia, con alterna immediatezza, con alterna felicità di linguaggio, ma con una costanza certosina. Nemmeno di questo si avvedono i critici: all’uscita di Hegel, il suo ultimo disco, i giornali si affannano a intervistare i filosofi; e invece Hegel era una ragazza, una che “il nome se lo prese in prestito dai libri”. Nel canzoniere di Lucio, Laura si frammenta in un caleidoscopio di figure: donne indipendenti o sottomesse, risolte o confuse, ispide o accoglienti, suore o puttane, che danzano con gli uomini tutte le possibili combinazioni dell’amore: le scene domestiche, le epifanie, i tradimenti e i rimpianti, persino i delitti (nell’enigmatica No, dottore). Il canovaccio è così potente che persino le sparute incursioni ideologiche sono veicolate dal dialogo intimo: così, nella schizofrenica Ma è un canto brasileiro, il messaggio anticonsumistico è affidato alle recriminazioni di un uomo nei confronti della propria compagna, modella pubblicitaria.

Se in Battisti ci fosse solo il progetto didascalico di un’educazione sentimentale, per quanto cesellata, verrebbe voglia di dar ragione agli scettici: saremmo probabilmente di fronte a una musica inadeguata ad affrontare i temi cruciali del suo tempo. E, pur capovolgendola, finiscono per conformarsi a questa conclusione anche i battistiani che rinvengono la grandezza del loro artista nella sua ambizione di cantare “solo” le stilettate agrodolci degli affetti. In quest’ottica, dedicarsi alle questioni del cuore sarebbe per Battisti un ripiego: l’accettazione di un limite.

A me pare vero il contrario: in Battisti emerge il radicale rifiuto dei limiti formali e sostanziali della canzone. La sua musica ci parla ancora proprio per questo: perché non si trastulla con l’ordine del giorno, ma si prende carico del mistero dell’umano; perché non si preoccupa dei temi del suo tempo, ma viviseziona il tema di ogni tempo. Il disimpegno di Battisti non è apatia, men che meno scelta di comodo. È il frutto della convinzione istintiva e incrollabile che le nostre storie d’individui e persino le nostre emozioni ombelicali precedano logicamente e moralmente le nostre ragioni di cittadini, elettori, consumatori. Parlando ostinatamente di sentimento, Battisti non chiude fuori il mondo, ma ci ricorda che, nonostante i terrorismi, le stagnazioni, le stragi di stato, le mafie, la corruzione, gli scandali, i cambiamenti climatici, le grandi recessioni, le crisi migratorie, i populismi, i rapporti deficit/Pil e i governi del cambiamento, continueremo ad amare. “Si sopravvive a tutto per innamorarsi”.

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