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Perché lo studioso sessista va criticato, non ostracizzato

I laboratori del Cern (Gettyimages)

Tra i tre studiosi insigniti martedì del Nobel per la fisica per le loro ricerche sui laser, compare la canadese Donna Strickland, donna di nome e di fatto, la terza di sempre a ricevere – a cinquantacinque anni di distanza dal più immediato precedente – il massimo riconoscimento scientifico nella disciplina di Einstein e Marie Curie.

L’annuncio è stato accolto da molti osservatori come un ironico contrappasso per il fisico Alessandro Strumia, bersaglio nelle stesse ore di biasimo unanime per aver argomentato – nel corso di un seminario del Cern dedicato alle questioni di genere nel campo della teoria delle alte energie – che la scarsa presenza femminile negli studî scientifici vada ricondotta a differenze biologiche e psicologiche tra uomini e donne, piuttosto che all’esistenza di un radicato pregiudizio maschilista, tuttora alimentato da meccanismi di discriminazione istituzionalizzati.

Il Cern ha reagito ribadendo la propria adesione ai valori della diversità e – giudicando l’intervento di Strumia “altamente offensivo” – ha deciso di sospendere ogni collaborazione con lo studioso italiano ed eliminare la sua controversa presentazione dalla pagina web del seminario; analoghe iniziative disciplinari sono state annunciate dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dall’università di Pisa, che ha sottoposto il caso alla Commissione etica dell’ateneo.

Cos’ha affermato Strumia, esattamente? Muovendo da un’analisi bibliometrica del settore, ha sostenuto che le donne abbiano in media meno citazioni degli uomini e necessitino di meno citazioni per essere assunte in posizioni di ricerca, il che dimostrerebbe che la discriminazione accademica penalizza semmai gli uomini (una conclusione difficilmente spassionata: lo stesso Strumia ha citato l’esempio di un concorso dell’Infn in cui una commissaria con meno citazioni gli ha preferito una candidata con meno citazioni). Inoltre, lo studioso ha fatto riferimento al cosiddetto “paradosso dell’uguaglianza di genere”, mostrando una correlazione negativa tra il livello di uguaglianza di genere di un paese e la quota di donne tra i laureati nelle discipline scientifiche.

Secondo Strumia, allora, la bassa presenza femminile in questi ambiti di studio si spiegherebbe piuttosto con divergenze d’interessi e abilità rinvenibili tra donne e uomini: sotto il primo profilo, le donne mostrerebbero maggiori interessi sociali (compatibili con l’alta presenza femminile nelle discipline umanistiche) e una maggior propensione a lavorare con le persone, anziché con le cose; quanto al secondo aspetto, donne e uomini mostrerebbero livelli di quoziente intellettivo comparabili in media, ma i valori dei secondi sarebbero caratterizzati da una maggior varianza, sicché gli uomini sarebbero più numerosi alle estremità della distribuzione (cioè, tanto tra le persone molto intelligenti, quanto tra le persone molto stupide).

A ben vedere, queste spiegazioni non negano di per sé il contributo di fattori sociali come la discriminazione, ma se le considerazioni di Strumia siano fondate o meno, interessa relativamente – anzi, diamo per assodato che si tratti di un punto di vista balordo, abbondantemente superato dalla letteratura sul tema. Più interessante è analizzare se, esprimendolo, Strumia abbia violato qualche principio morale o professionale e se le risposte degli enti con cui il fisico italiano è (o era) associato risultino proporzionate e opportune.

Nella discussa presentazione, Strumia ha individuato due questioni di ricerca (l’esistenza di discriminazioni accademiche a danno delle donne; e la presenza di fattori alternativi che ne spieghino la scarsa presenza nelle discipline scientifiche) e le ha affrontate facendo ricorso ai dati disponibili e alla letteratura rilevante. Ha fatto, cioè, della scienza. Questo non significa che abbia fatto della buona scienza: può ben darsi che abbia valorizzato elementi privi d’importanza o che abbia ignorato prove contrarie significative. Tuttavia, nei suoi argomenti non si rinvengono insulti o attacchi personali: l’invocazione a mo’ di esempio di un caso che lo riguardava direttamente è stata certo di cattivo gusto, ma la citazione delle due colleghe coinvolte non sembrava esulare – almeno per quanto ricaviamo dalle slide – dai confini di una critica lecita.

Cos’ha indotto, allora, il Cern a bollare come “altamente offensiva” la presentazione di Strumia? La sensazione è che a offendere i presenti che hanno denunciato il caso – e coloro che li hanno confortati sui social, quasi che l’esposizione a un punto di vista diverso costituisse ipso facto un abuso – sia stata l’opinione in sé e non la sua più o meno elegante manifestazione. L’impressione è che lo spettro delle convinzioni accettabili sia stato insopportabilmente ristretto rispetto a certi temi, ritenuti abbastanza importanti da richiedere una trattazione specifica, ma non tanto da meritare una discussione aperta e plurale.

Questa lettura è corroborata dai provvedimenti del Cern e degli altri enti coinvolti: la sospensione dello studioso non perché abbia truccato dei dati o omesso di svelare dei finanziamenti ricevuti, né perché abbia messo in atto forme di discriminazione, privilegiando candidati meno qualificati sulla base del loro genere, e dunque per essere venuto meno ai suoi doveri professionali minimi, ma per aver soltanto rappresentato una tesi contraria a quella largamente prevalente; e soprattutto la cassazione delle slide dal resoconto online del seminario, come se l’intervento incriminato non fosse mai avvenuto.

Da questo punto di vista, la storia di Strumia richiama quella del matematico Theodore Hill, autore di un articolo sulla ricordata teoria della maggior variabilità maschile, che – in seguito alle rimostranze e alle minacce di boicottaggio di un gruppo di accademici – ha dapprima subito il ritiro di una proposta di pubblicazione a bozze già approvate e poi, una volta pubblicato sul New York Journal of Mathematics, è stato rimosso – senza spiegazioni, né ritrattazioni – dall’archivio della rivista e rimpiazzato da un altro articolo alla stessa pagina dello stesso volume: una disavventura probabilmente senza precedenti nella storia dell’editoria scientifica.

La conseguenza logica di un approccio che tratta ogni forma di dissenso come un’aggressione implicita è quella di rifiutare di affrontare nel merito le idee che si discostano dalla posizione maggioritaria, destinandole al buco nero delle opinioni sgradevoli. Queste forme di censura retroattiva – peraltro controproducenti: c’è da giurare che, per quante citazioni accademiche abbia accumulato, mai nella vita Strumia avesse ricevuto tanta attenzione – non si limitano a ledere la libertà accademica di chi le subisce, ma compromettono la salubrità e l’utilità del discorso pubblico.

Tanto più preoccupante è che simili atteggiamenti emergano in seno alla comunità scientifica, cioè al gruppo che a maggior ragione dovrebbe coltivare il metodo del confronto più ampio, rifiutando scomuniche, tabù e steccati ideologici. Rimuovere gli ostacoli che ancora si frappongono alla rappresentazione delle donne nelle discipline scientifiche è un intento meritorio, ma richiede un’adeguata comprensione di queste barriere: ben vengano, allora, le critiche a Strumia, purché dirette alla sostanza dei suoi argomenti. La sua ostracizzazione va esattamente nella direzione opposta – a prescindere dal genere di chi la pratica.

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