Andrea Prencipe, rettore della Luiss Guido Carlo
Leader

La “fabbrica” di manager e imprenditori creata da Confindustria

Andrea Prencipe, rettore della Luiss Guido Carlo
Andrea Prencipe, rettore della Luiss Guido Carli

Articolo tratto dal numero di dicembre 2020 di Forbes. Abbonati

“Stiamo correndo”, dice Andrea Prencipe, 51 anni, rettore della Luiss. E lo dice con soddisfazione, perché a lui piace correre, a piedi e in moto: mezza maratona e Triumph (guida una scrambler ispirata agli anni Sessanta). Il tocco british, evidente eredità delle esperienze di lavoro in Inghilterra, si manifesta tra l’altro nell’immancabile papillon. “Ho fatto buona parte della mia carriera in Regno Unito”, ricorda, “alla Science Policy Research Unit (Spru) dell’università del Sussex”. Quindici anni fa il rientro in Italia è stato uno choc culturale, ammette, “ma molte cose sono cambiate, se adesso ci sono professori della London School of Economics o di Berkeley che vengono a insegnare a Roma”. E ovviamente si riferisce alla Luiss Guido Carli, l’università nata su iniziativa di Confindustria nel 1977, che guida dall’estate 2018.

Professore, la Luiss ha compiuto 42 anni, nel mondo della formazione è una “fabbrica” riconosciuta di manager e imprenditori. Che cosa significa correre?

Anticipare i tempi in cui viviamo, secondo una dimensione che in Luiss è pervasiva: l’internazionalizzazione. Solo nel 2018 è triplicato il numero di docenti ed è raddoppiato il numero di studenti provenienti dall’estero, abbiamo 250 accordi internazionali di exchange e il 50% dei corsi di laurea è ormai in lingua inglese.

In questa dimensione internazionale che cosa bisogna oggigiorno insegnare ai futuri leader?
C’è un convincimento diffuso fra noi. In futuro ci attendono problemi complessi che richiedono il coinvolgimento di competenze diverse ma la specializzazione dovrà sempre di più essere accompagnata da una preparazione generalista: chiunque guiderà team di esperti deve essere in grado di comprenderli, di interagire con loro per valorizzarne i contributi. Dovrà essere multilinguista. Tant’è che noi definiamo i nostri laureati “generalisti specializzati”. Se vuole, le faccio qualche esempio.

Certo, vediamo che cosa significa questo “multilinguismo”

Diversi amministratori delegati o direttori delle risorse umane ci dicono che il tradizionale laureato in management manca di competenze su politica, lobbying, relazioni internazionali. Per questo abbiamo attivato una laurea magistrale in Global Management and Politics, che sta a cavallo fra management e scienze politiche. Altro esempio: Management e Computer Science, una laurea triennale che propone un percorso ibrido fra scienze sociali (management) e data science con l’obiettivo di formare quelli che noi chiamiamo i manager “aumentati”.

Basta quindi aggiungere un po’ di tecnologia e di politica internazionale?

No, il profilo non si completa così. Noi stiamo investendo da tempo sull’apprendimento attraverso esperienze, per fare in modo che i nostri ragazzi acquisiscano le cosiddette soft skills, quelle competenze “morbide” che io preferisco chiamare “human skills”. Questo significa, ad esempio, lavorare in contesti particolari, come le aziende confiscate alla mafia. Questo bagno nella realtà diventa sempre più importante.

Vuol dire che in prospettiva l’esperienza sarà più importante dello studio?

Assolutamente no, anzi dobbiamo avere forte l’orgoglio della formazione. In un contesto sempre più turbolento la centralità della formazione accademica è l’unica certezza possibile. A un incontro internazionale ho sentito alcuni colleghi inglesi che di fronte alla situazione liquida del quadro economico pensano di rispondere accorciando i tempi del bachelor a due anni. Sono assolutamente contrario, perché per potersi reinventare è necessario avere buone fondamenta. È vero che ogni materia invecchia sempre più rapidamente, ma se si apprende un buon metodo quello serve sempre.

Professore, che cos’è questa “turbolenza”? Come va affrontata?

Il messaggio ai futuri laureati è chiaro: non c’è la casella di un organigramma che aspetta voi per essere riempita. Dovranno essere in grado di inventarsi un lavoro, essere in qualche modo imprenditori di sè stessi. Siamo l’università di Confindustria, l’imprenditorialità è un nostro valore, ma deve diventare un approccio mentale valido in ogni situazione. Ricorda quando, appena insediato alla Bce, Mario Draghi fu etichettato un vero imprenditore istituzionale?

Che cosa fate per formare e diffondere questo approccio imprenditoriale e la cultura dell’innovazione?

Due cose: da una parte una continua esposizione al mondo reale, come ricordavo. Dall’altra Luiss è l’unico ateneo di scienze sociali con due acceleratori di startup. Quello di Roma, Enlabs, è il più grande d’Italia, con oltre 60 startup. Milano Luiss Hub è più piccolo, non è solo un acceleratore, si dedica all’alternanza scuola-lavoro e ospita alcune classi della business school. Presto potrebbe crescere, in termini di spazi, come sta già crescendo Roma.

Professore, si è mai pentito, anche solo per un momento, di essere tornato in Italia?

No. Quando l’ho fatto io, non si parlava di rientro di cervelli ma di cervelli che scelgono, senza barriere. Ecco, come c’è il made in Italy, noi dobbiamo credere all’educated in Italy. Molte cose sono cambiate, i risultati si vedono ma noi continuiamo a correre.

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