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Quali danni economici può realmente provocare il nuovo virus cinese

Virus Cina
(Shutterstock)

Il nuovo, misterioso coronavirus identificato in Cina ha già ucciso 9 persone e superato i confini di Wuhan, area urbana di 11 milioni di persone dove era partito il contagio. Con oltre 400 casi confermati, l’infezione ricalca un precedente inquietante, quello della pandemia di Sars (in italiano: Sindrome Acuta Respiratoria Grave) che 17 anni fa uccise circa 800 persone. Il timore degli esperti è che, così come nel 2003, questo tipo piuttosto aggressivo di polmonite possa colpire con gravità non solo gli umani ma anche la seconda economia del globo, già assediata da una guerra commerciale senza esclusione di colpi con gli Stati Uniti.

Il settore che rischia di essere colpito con più immediatezza è il turismo. Questo perché il coronavirus ha fatto la sua comparsa in un momento molto delicato: a pochi giorni dal Capodanno lunare, data importantissima per i cinesi. Entro fine mese milioni di persone potrebbero andare in vacanza all’estero o spostarsi o da una provincia all’altra del Paese; il che rappresenta, secondo gli esperti, il rischio di “esportare” la malattia nel vastissimo territorio della Cina o peggio, in altre nazioni asiatiche e oltreoceano. Le autorità di Pechino si sono affrettate a dire che il coronavirus è sotto controllo e che Wuhan è stretta da una sorta di cordone sanitario, ma in Tailandia, Singapore e Giappone si rilevano già i primi contagi.

A Tokyo la preoccupazione è ai massimi livelli anche per un altro motivo: qui, a poche centinaia di chilometri dalla Cina, si terranno le Olimpiadi estive e le Paraolimpiadi, con un numero significativo di visitatori stranieri attesi per l’evento. Se il portavoce del governo giapponese ha dichiarato giovedì in una conferenza stampa che non ci sarebbero prove chiare della trasmissione del virus da persona a persona, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie ha affermato che la somiglianza con la Sars è evidente, sebbene siano in corso ulteriori analisi.

Secondo gli analisti economici, una riedizione della Sars rappresenterebbe un colpo durissimo anche per il commercio al dettaglio, che rappresenta circa il 40% del Pil cinese. In questo momento, nelle strade di Wuhan, a circa 1000 chilometri dalla capitale, molti mercati del pesce sono deserti per paura del contagio.

Un’eventualità del genere potrebbe ostacolare ulteriormente la crescita economica della Cina, che per quest’anno è stata di un deludente – si fa per dire – 6,1%: il peggior dato degli ultimi 29 anni. Un fattore centrale nel rallentamento sono le esportazioni, soffocate dalla guerra delle tariffe con gli Stati Uniti che proprio in questi giorni sembra arrivata a un primo armistizio, la “Fase uno”, anche il giudizio sui suoi effetti non è unanime.

Più di ogni altra considerazione, sulle preoccupazioni di questi giorni incombono i ricordi, terribili, del 2003. Quando la Sars, probabilmente originata da pipistrelli, emerse in Cina per poi farsi largo in tutto il globo. L’epidemia creò un clima di paranoia diffusa e danni gravi al tessuto sociale e produttivo del Paese, che cresceva al ritmo del 10% l’anno ed era diventato già un decennio un modello esemplare di riduzione della povertà.

Già in uno studio dell’anno successivo, il China Center for Economic Research dell’Università di Pechino stimò in 25,3 miliardi di dollari il costo della Sars sul Pil cinese nell’anno precedente, e un tasso di crescita rallentato di uno o due punti percentuali (e dello 0,5% nell’intero-Sud est asiatico).

L’esplosione della Sars è dunque un precedente importante da studiare. Con il ridursi degli spostamenti umani si ridusse anche la domanda di cibo, vestiti, viaggi e intrattenimento. Nel Paese con più turisti domestici e internazionali al mondo, il numero di ospiti degli hotel andò a picco. Secondo un altro studio, l’indotto apportato dai visitatori stranieri crollò del 50-60%. Megalopoli come Shanghai apparirono all’improvviso spettralmente silenziose, con poche persone per strada e ristoranti semivuoti. L’impatto sulla comunità nazionale nel suo complesso fu drammatico.

Quando l’Organizzazione mondiale della Sanità annunciò che un’area epidemica si era radicata a Pechino, i viaggiatori e le compagnie aree internazionali non se lo fecero ripetere due volte, tempestando gli utenti con raccomandazioni sullo screening negli aeroporti e su come frequentare gli spazi pubblici. Questo non impedì ripercussioni simbolicamente gravi: il World Economic Forum che doveva tenersi a Pechino a metà aprile 2003 fu posticipato; il concerto dei Rolling Stones, annullato del tutto. Molte metropoli videro sparire, da un giorno all’altro, gli ingorghi stradali per i quali erano famigerate.

L’influenza della Sars si diffuse anche nel settore manifatturiero. Le spedizioni dalla provincia del Guangdong, il centro produttivo più importante del Paese, verso Hong Kong si ridussero di un terzo. Le spese per la prevenzione e l’assistenza sanitaria aumentarono considerevolmente, con effetti negativi sulle famiglie e intere provincie in recessione. La pratica collettiva, allora in ascesa, dello shopping nei grandi centri commerciali subì una battuta d’arresto importante. Migliaia di persone persero il lavoro all’improvviso. In un’altra ricerca, l’impatto macroeconomico globale della Sars è stato stimato tra i 30 e i 100 miliardi di dollari, vale a dire l’esorbitante cifra di 3-10 milioni di dollari per contagiato.

Cos’è cambiato da allora?

La globalizzazione e le ideologie che la giustificano non se la stanno passando bene come agli inizi dei Duemila, ma l’economia cinese è molto più integrata con le altre economie asiatiche e il resto del mondo. Nel 2003 le compagnie straniere stavano iniziando a spostare la produzione in Cina, dopo l’ingresso di questa nel WTO avvenuto due anni prima. Oggi, l’azione di Trump è tutta orientata a riportare entro i confini americani (o perlomeno negli altri Paesi asiatici) parte di quella produzione.

Tuttavia, il gigante asiatico è ormai diventato l’opificio dell’economia globale e lo resterà ancora a lungo; un eventuale collasso dello Stato cinese, unito a una grave interruzione dell’offerta di prodotti a basso costo, sarà avvertito anche dalle nazioni più potenti. Nonostante la solidarietà e la collaborazione tra blocchi geopolitici sia ai minimi storici, dal punto di vista degli attori internazionali, aiutare la Cina a combattere future epidemie significherebbe ad aiutare anche se stessi.

Secondo Yusuke Miura, capo ricercatore presso il Mizuho Research Institute di Tokyo, non c’è dubbio alcuno che il riemergere di una sorta di seconda Sars rappresenterebbe un “grosso mal di testa” per un’economia che è già alla ricerca del rilancio. “Dovesse aumentare la preoccupazione degli stranieri per il nuovo virus, potrebbero smettere di acquistare prodotti cinesi e di investire in Cina”, ha spiegato Miura a Japan Times.

Al danno sanitario ed economico poi c’è da considerare quello relativo alla convivenza. Durante la presidenza Trump il sospetto e l’ostilità tra statunitensi e cinesi sono aumentati. Questo vuol dire che, proprio come nel 2003 e forse anche di più, ogni immigrato visitatore proveniente dalla Cina potrebbe essere visto in America come un potenziale portatore della malattia. Un incidente nel New Jersey durante l’epidemia di Sars, in cui a degli artisti di origine cinese fu negato l’accesso a una scuola media, ci ricorda che quando le pandemie diventa parte del lessico politico nazionale, la paura e la disinformazione possono compromettere l’armonia etnica in qualsiasi.

Senza considerare che ci avviciniamo alla campagna per la rielezione di Trump, che si baserà molto sulla sua battaglia contro la concorrenza sleale dei cinesi e il danno da loro apportato alla classe lavoratrice americana. Le minoranze asiatiche negli Stati Uniti e in Canada potrebbero diventare un delicato problema politico.

Date le implicazioni internazionali della salute pubblica cinese, insomma è nell’interesse degli Stati Uniti e di altre nazioni industrializzate espandere la cooperazione con la Cina nei settori dello scambio di informazioni, della ricerca, della formazione del personale e del miglioramento delle strutture sanitarie pubbliche. Nel frattempo, la leadership cinese sarà chiamata a un grande banco di prova per quanto riguarda la sua immagine e la sua capacità di controllo del disordine. C’è da immaginare sia un dispiegamento ancora superiore della tecnologia (militare e poliziesca) per evitare il caos, sia il rischio di un dissenso crescente in un Paese che non galoppa più come una volta. Una Hong Kong colpita negli interessi economici dagli effetti indiretti del coronavirus, nel bel mezzo delle proteste più violente dalla fine del dominio britannico, potrebbe esplodere definitivamente.

Comunque vada, quel che succederà alla Cina riguarda tutti.

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